Surf

Surf, sport o rivelazione?

Il surf è arte nel modo in cui ci si esprime su un’onda. È uno sport perché è una competizione, una continua sfida, ed è spirituale perché sei solo tu e Madre Natura. È possibile che cavalcare le onde su una tavola possa avere i connotati di una religione della natura e dello spirito?

Forse sì. O forse siamo di fronte ad una rivelazione, il che rende il surf qualcosa di ancor meno catalogabile, ma più universale.

Il “soul surfer” è un termine introdotto dagli stessi surfisti negli anni ’70, negli USA e in Australia. Secondo Bron Taylor, il “soul surfer” considera il surf come una pratica profondamente significativa che apporta benefici fisici, psicologici e spirituali. Chiunque abbia esperienza con le culture del surf può attestare che il surf non è facilmente catalogabile. È principalmente uno  sport, ma può spaziare dall’arte alla vocazione e persino alla religione.

Per alcuni il surf è dichiaratamente un’esperienza religiosa e non ci vuole troppo, analizzando la cultura del surf e la sua retorica, per riconoscere la sua natura infusa di spiritualità.

Un’idea che viene espressa costantemente nella cultura del surf, è che il surf ha un’aura spirituale che si ottiene solo dopo averlo sperimentato in prima persona. È sempre un viaggio verso l’io interiore.  Il surf è certamente una cultura ampia che comprende al suo interno testi sacri, miti, simboli, credenze, pratiche e profeti. Prima di bollare il surf come una pratica adatta solo a palestrati ed esibizionisti, cerchiamo di saperne qualcosa di più.

Il mito delle origini

Glenn Hening, che nel 1984 ha fondato l’ambientalista Surfrider Foundation, iniziò alla fine degli anni ’80 ad esplorare la possibilità che gli antichi peruviani fossero stati i primi surfisti. Ha basato le sue speculazioni tenendo conto della loro arte e architettura durante uno dei suoi viaggi in Perù. Tuttavia la narrativa dominante circa le origini del surf, identifica la sua origine nelle culture polinesiane del Pacifico del sud. Secondo Drew Kampion, uno dei cronisti più prolifici del surf, queste culture oceaniche erano a loro agio con le forze e gli spiriti della natura. Per un millennio, queste culture del Pacifico hanno cavalcato in modo rituale le onde su piccole tavole ed in posizione prona. Quella del surf in piedi sulla tavola è un’evoluzione successiva, probabilmente sviluppatasi nelle Hawaii.

Illustrazione di Charles Victor Crosnier De Varigny (1829-1899) – avventuriero, diplomatico e scrittore francese – durante i suoi viaggi attraverso le isole hawaiane nel 1855.

Già nella seconda metà del XVIII secolo, gli hawaiani erano maestri del surf, uniti a una profonda consapevolezza spirituale dell’acqua e della natura. Ma questa situazione paradisiaca mutò drasticamente con il primo sbarco dell’uomo bianco alle Hawaii nel 1778 sotto la guida del capitano James Cook. Metallo, pistole, cannoni, uniformi, alcol, malattie trasmesse per via sessuale e una strana nuova religione hanno portato all’implosione culturale della civiltà indigena hawaiana. Con la distruzione della vecchia civiltà, la cultura originale del surf è scomparsa.

Nelle isole hawaiane, il surf ha avuto un significato profondamente religioso. Le tavole antiche erano lunghe più di 4 metri e pesavano anche 70 chili. Nonostante la difficoltà nel gestire una tavola così imponente tra le onde, tutta la società amava il surf: regnanti, contadini, uomini, donne e bambini. Il rapporto con il mare era sacro per tutti e tutti avevano la possibilità di viverlo.

Dopo l’oblio, la rinascita

Superato un periodo di genocidio culturale perpetrato dai colonizzatori, che portò alla quasi totale estinzione della pratica del surf, nel IXX secolo si ebbe un rinnovato interesse per le culture native, grazie anche ai racconti di Jack London. La figura decisiva nella rivitalizzazione e nella trasmissione di questo antico sport fu il carismatico nuotatore e navigatore hawaiano, Duke Kahanamoku. Dopo aver vinto la medaglia d’oro di nuoto alle olimpiadi del 1912, Kahanamoku fece conoscere il surf in lungo e largo, dalle coste del Nord America a quelle dell’Australia.

Glenn Hening, che più tardi nella sua carriera di attivista ha co-fondato la Società Groundswell, in parte per portare avanti l’eredità di Kahanamoku, ha commentato:

“Duke Kahanamoku ha promosso il surf in tutto il mondo, e i moderni surfisti lo vedono come l’incarnazione di una spiritualità etica che potrebbe essere parte di un sistema di credenze religiose.”

La medaglia d’oro Duke Kahanamoku e la sua tavola da surf

Sulla scia dei viaggi di Kahanamoku, il mainstream della storia del surf continuò, poiché una sottocultura di surfisti “tribali” si sviluppò in California e in Australia, espandendosi infine ad altri continenti. Descrivendo questa evoluzione, Kampion afferma:

“La cultura del surf ha una ricca storia e un sistema unico di rituali, elementi linguistici distintivi, elementi simbolici, una gerarchia tribale senza vincoli e caratteristiche di stile di vita uniche che sono state ampiamente imitate ed emulate in tutto il mondo. Ancora oggi, gli aspetti della cultura del surf esprimono valori culturali polinesiani fondamentali e duraturi, che considerano il surf come nobile, positivo e profondamente intriso di significato spirituale.”

Lo scrittore e costruttore di tavole da surf, Dave Parmenter scrisse:

“I missionari portarono il loro dio occidentale alle Hawaii, ma alla fine furono missionari del surf come Duke Kahanamoku e Tom Blake [suo successore spirituale] che ebbero l’ultima parola. Non solo il surf è più diffuso di molte religioni consolidate; ha anche dimostrato di essere una “fede” molto più pacifica, benevola e inclusiva della maggior parte di esse. A parte alcune sacche isolate, i surfisti di tutto il mondo coesistono con un grado di tolleranza e armonia che potrebbero essere invidiate da molte fedi riconosciute.”

Spiritualità e globalizzazione

Fu durante gli anni ’60 che il risveglio spirituale del surf si intensificò mentre si fondeva con nuove correnti religiose e politiche, unendo atteggiamenti anti-istituzionali e anti-gerarchici con la metafisica olistica che era collegata alle sostanze psichedeliche, alle religioni originarie dell’Asia e al neopaganesimo.

Forse i due temi più affrontati nei film sul surf, sono il surf come un’esperienza estatica e mistica e la ricerca di onde perfette e luoghi paradisiaci dove praticare il surf delle origini. Durante gli anni ’60 e ’70, i film sul surf non erano ancora arrivati a Hollywood e venivano solitamente mostrati nelle piccole sale civiche, nei club privati dove un pubblico formato quasi esclusivamente da praticanti, si identificava totalmente con la propria ricerca personale, rappresentata sul grande schermo.

Il film sul mondo del surf più famoso è certamente Endless Summer di Bruce Brown (1963), rappresentava la ricerca di luoghi incontaminati e “l’onda perfetta”.  Allo stesso modo, Morning of the Earth (1972), prodotto dall’australiano Albert Falzon, si è concentrato sul surf praticato in territori australiani e indonesiani rappresentati come paradisi. Il poster descrive il film come “una fantasia di surfisti che vivono in tre terre incontaminate, giocando nell’oceano della natura”, mentre la recensione della rivista Surfer spiegava che era un film “sul giardino dell’Eden, più onde, meno il serpente.”

Drew Kampion, che nel 1968, a 24 anni, divenne redattore della rivista Surfer, diede il proprio contributo alla costruzione del surf come religione della natura in opposizione ad altri valori, materiali e violenti: era il culmine della guerra in Vietnam.

“Quando le guerre, le bandiere, le religioni, le nazioni e le città e i missili saranno spariti, ci sarà ancora un ordine di cose ben oltre l’ordine degli uomini resi pazzi dal potere. Sarà l’ordine di un universo dove tutte le forze naturali sono in equilibrio. Ed è tutto quello che cavalcare un’onda rappresenta.”

Il surf come esperienza mistica e perfino politica, non si limita agli uomini, come dimostra un’intervista a Marilyn Edwards, editrice della rivista Wahine, che si rivolge alle donne surfiste.

“Quando vedo una donna su un’onda, vedo la connessione con l’onda. L’energia emotiva delle donne tende all’unità. L’energia maschile è più indipendente, viene fuori più “l’io”. E anche se questo non è vero per tutti gli uomini, spesso loro surfano sull’onda, mentre le donne surfano con l’onda.”

Kelia Moniz

Rischio, adrenalina e rivelazione

Le due cose che più di tutte sentirete dire dai surfisti che affrontano le onde più grandi e più pericolose, sono il modo in cui focalizzano intensamente l’attenzione, e che si deve veramente “vivere nel momento” per poter sopravvivere.

“Per essere davvero bravi a cavalcare un’onda devi avvicinarti ad uno stato mentale Zen. Vivi nel momento. Il resto della tua vita potrebbe essere in rovina, ma poiché stai attingendo alla fonte, sei profondamente felice.”
Gerry Lopez – campione di surf

Non è chiaro cosa Lopez intenda con la fonte, ma potrebbe essere la fonte della vita, la fonte di tutto. Dopotutto, il mare non è stato la culla della vita sulla Terra?

Jay Moriarity ha trovato parte della risposta nel modo in cui il surf trasforma la coscienza: “Una buona dose di paura è lenitiva per la psiche umana. Quando il cervello rileva il pericolo, il corpo umano invia adrenalina in ogni parte del corpo. Una volta che questo pericolo è passato, il corpo invia dopamina al cervello, una sostanza chimica che dona benessere, un modo per congratularsi con il cervello del pericolo scampato. Ecco perché le persone vogliono surfare grandi onde.”

Qualunque sia la chimica del cervello che può essere coinvolta in ciò che i surfer fanno, l’esperienza di essere in bilico tra la vita e la morte, in una danza che coinvolge l’individuo e la forza della natura, può essere davvero rivelatrice di uno stato mentale insondabile altrimenti, una rivelazione.

Comunione e guarigione

L’esperienza spirituale del surf è correlata a un sentimento di appartenenza e comunione con gli altri esseri viventi, la terra e persino l’universo stesso, così come la percezione che tali connessioni siano curative. Articolando questo senso di connessione, alcuni intellettuali surfer parlano poeticamente di fluire e partecipare a onde di energia cosmica, come ha fatto Drew Kampion nel libro “Il libro delle onde”.

“Tutto è onde. L’universo dello spazio e della materia è carico di energia, onde di energia. Come gli echi del battito del cuore dell’essere assoluto, le onde esprimono la volontà divina. Danno forma all’universo. Le onde passano attraverso tutto: acciaio, pietra, carne e sangue, acqua, aria e spazio allo stesso modo. Le onde sono l’impronta, la firma, non solo della vita, ma dell’esistenza stessa.”

Il surf come cura per il corpo e per la mente, quindi. Ma non è solo mistica, i risultati ci sono e sono documentati. E chi più dei reduci di guerra è portatore di ferite nel corpo e nell’anima? Un bel documentario uscito nel 2017, Resurface, racconta proprio questo: in lotta con i traumi e la depressione conseguenti al servizio militare, un veterano della guerra in Iraq vede sempre più vicino un terribile epilogo: il suicidio. Grazie ad un programma di surf therapy, lui e molti altri invalidi, ritrovano un equilibrio sulle onde e anche nella vita. “Il surf mi ha salvato la vita” confessa uno di loro.

Terminiamo il nostro articolo con le parole di Keith Glendon e chissà che il vostro cammino verso la rivelazione, possa iniziare proprio alla fine di questa lettura…

“Il mare custodisce una magia per quelli di noi che la conoscono. Una magia così semplice, pura e potente funziona come una forza invisibile nelle nostre anime. Siamo attratti da lei. Lo spirito del mare si muove in noi mentre ci muoviamo dentro di lei, pieghe ondulate alla ricerca della nostra pace. Come surfisti, sappiamo che è così. Il mare porta conforto, liberazione e fuga. Il mare porta guarigione. Lo spirito del mare, per alcuni di noi, è l’essenza stessa della vita.”

 

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